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mercoledì 18 settembre 2013

Riflessioni #7: L'ego della bilancia

Quando ingrasso somiglio a mio padre, quando dimagrisco ad un’altra persona. E’ un periodo un po’ strano, la frase che mi ronza in testa da un po’ e’ una di quelle che ho sentito per caso, di non so chi, una citazione, che poi le citazioni manco mi piacciono. “Chi riesce a descrivere le proprie emozioni su carta, le prova con intensita’ tanto minore tanto piu’ riesce a descriverle.” E allora mi chiedo spesso chi io sia, e chi siano tutti i miei scrittori preferiti, quali tumide bestie possano essi essere. Mi rendo pero’ conto di quanto sia vero. E’ vero, io mi meraviglio di tutto, io prendo appunti sul piu’ totale nulla se c’e’ uno stupido particolare che mi colpisce, pero’ tutto e’ cosi’ piccolo, e la parola “particolare” dovrebbe averlo lasciato intendere. Provo emozioni piccole, sensazioni magre. Le magliette mi ballano addosso, meta’ non mi vanno, perche’ sono dimagrito in maniera scomposta: le spalle sono secche, sottili, il petto pero’ e’ ampio e i fianchetti sono ancora larghi e prominenti, con l’effetto indesiderato di lasciare panzetta sulle magliette striminzite e ali di pipistrello su quelle larghe che usavo una volta. Anche il corpo mi sta grande, sono troppo grandi le mie mani, e’ troppo grande il mio petto per questi topi scarni, le mie ideuzze. Tento il continuo ridimensionamento dell’ego, ma questo e’ un procedimento egoistico, e altri egoisti, quelli normali con l’ego sano, me lo fanno notare, o ancora peggio me lo fanno notare gli altruisti. Adesso il mio ego lo tengo alle dimensioni dello scheletro, ma lo faro’ scendere al solo bacino per poi rinchiuderlo nell’osso sacro. Eppure, un altro desiderio si sforza prepotente, quello di descrivere le mie emozioni, e per quello dovrei ingrassare. Ingrassare il mio ego, rimpinzarlo, pero’ non troppo, in modo da lasciare lo spazio alle cose di ballarmi addosso, di ballarmi attorno, in modo da permettermi di descrivermi senza farmi troppo male. Mi iscrivero’ alla Weight Watchers.

mercoledì 11 settembre 2013

Succede spesso

Entro in un bar. Voglio chiedere se possono darmi un euro e dieci centesimi, per comprare il biglietto sull'autobus. Entro e dico subito buongiorno. Apro il portafogli e prendo 20 euro. Venti euro sono troppi, penso. Questo pensiero mi rende impacciato.

"M-mi cambia... dieci centesimi no ce un euro e dieci... peffeerr biglietto suautobus?"

Questo mi esce dalla bocca. Succede, quando si è impacciato. Per fortuna la ragazza bionda dietro al bancone capisce, e mi fa: "Noi vendiamo anche i biglietti", mi fa, con sorriso di solidarietà e accento straniero. Sarà perché pensa che anch'io sia straniero? Fortuna che ha capito, comunque. Fortuna che la gente capisce.
"Okay, mldia", faccio io, "uno", mi arrampico sul portafogli per prendere 10 centesimi che facilitino il calcolo alla ragazza. Nel frattempo vedo il bus, fuori dal bar, e mi giro repentino verso la cassiera, uno sguardo rapace. Mi da il biglietto, lo infilo nel portafoglio. Muovo le mani in una maniera incomprensibile, a coppa, ma agitando le dita, per indicare fretta. Ho gli occhi blu spalancati, i capelli sugli occhi, gli occhi pazzi. Ecco i soldi. Esco fuori. Corro. Per fortuna l'ho preso.